Cesare Lombroso e l’Epilessia

Cesare Lombroso e l’Epilessia

Autore: Cav. Enrico RICHIARDONE

In occasione del centenario della morte di Cesare Lombroso, Enrico Richiardone – consigliere APiCE, autore di tre apprezzate pubblicazioni sull’epilessia e numerosi articoli – ha voluto trasferire in questo scritto delle notizie che, pur non essendo esaustive dell’intera opera, individuano alcuni aspetti noti ed altri meno noti del discusso antropologo e criminologo italiano.C.B.


Cesare Lombroso nacque nel 1835 a Verona e morì a Torino nel 1909. Dopo la laurea in medicina conseguita nel 1858 e quella successiva nel 1859 in chirurgia presso l’università di Pavia, si arruolò volontario nell’esercito piemontese in qualità di medico militare. Inviato in Calabria per la lotta al brigantaggio vi rimase sino al 1863 dedicandosi, oltre ai doveri di medico militare, a ricerche e osservazioni medico-antropologiche su oltre 3000 soldati. Nel 1876 ottenuta la cattedra di Medicina Legale e Igiene Pubblica presso l’Università di Torino rivolse i suoi studi ai carcerati del penitenziario cittadino. Pur cambiando diverse cattedre – da quella di psichiatria e psicologia clinica del 1896 sino a quella di antropologia criminale del 1906 – continuò a prestare l’opera di medico nel penitenziario di Torino esaminando con tests e misurazioni oltre 200 reclusi all’anno. Autore di oltre 30 libri e più di mille tra articoli e monografie, tra il 1876 e il 1897 pubblicò in cinque edizioni l’ opera sua più celebre “L’uomo delinquente” nei tre filoni principali: classificazione dei delinquenti, identità dei delinquenti-nati e le pene da commisurare. Nel 1893 con Guglielmo Ferrero, suo allievo prediletto, pubblicò “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”, prima opera sulla criminalità femminile. Cesare Lombroso fu stimato ed osannato da scienziati, uomini di cultura, giuristi e letterati come innovatore ma nello stesso tempo fu oggetto di critiche e dure polemiche. L’UOMO DELINQUENTE Cesare Lombroso sostenne per tutta la vita la necessità di studiare il corpo dei criminali per trovare le giuste risposte ai loro crimini. L’idea gli venne improvvisamente nel 1871 quando, nel corso dell’autopsia del brigante calabrese Villella, scoprì “una fossetta alla base del cranio e sotto di essa un tratto dilatato del midollo spinale” che gli ricordava una tipica caratteristica di alcune “razze inferiori” della Bolivia e del Perù ma anche “tipi inferiori di scimmie, roditori e uccelli”. Nelle prime due edizioni dell’opera, dichiarò che tutti i delinquenti erano atavistici – trasmissione ereditaria di caratteri fisici (le fattezze) e psichici (gli istinti feroci) dell’umanità primitiva e degli animali inferiori – perché “esiste una singolare coincidenza tra molte delle alterazioni riscontrate nei criminali con quelle delle razze colorate o inferiori”. Ispirandosi ai postulati di Gall sulla frenologia dichiarava che i difetti fisici esteriori erano il segno di una depravazione interiore e portava ad esempio la ferocia dei delinquenti che “era comune nei popoli antichi e selvaggi ma rara e mostruosa per i nostri”. Nella III edizione ammise però che l’atavismo era un concetto inadeguato, che non spiegava tutte le anomalie dei delinquenti abituali o delinquenti-nati. Perciò associò il concetto di degenerazione di Morel – alcolismo, malattie veneree e tubercolosi, epilessia e malnutrizione come principali cause di degenerazione fisica e morale – a quello atavistico. Si convinse anche che le malformazioni fisiche e psicologiche derivavano da malattie del feto anziché da una “debolezza ereditaria”. Abbracciò la teoria biogenetica di Haeckel che indicava nelle malattie precedentemente citate l’impedimento al feto di ricapitolare tutti gli stadi dell’evoluzione umana. Bloccato il suo sviluppo nel ventre materno i bambini potevano nascere con una predisposizione al crimine. Sostenne che molti sintomi degenerativi del delinquente erano più mentali che fisici ed elaborò una nuova categoria di delinquenti-nati: i pazzi morali. Costoro erano persone dotate di un’intelligenza e di un fisico apparentemente normale ma incapaci di distinguere il comportamento buono da quello cattivo e presentavano “una ottusità tattile compatibile con la loro vacuità morale”. Vennero classificati dal Lombroso identici ai delinquenti atavistici nell’impulso di fare del male agli altri e per la mancanza totale di rimorso. Nella IV edizione, osservando che sin dalla nascita il delinquente e l’epilettico si rassomigliavano perché entrambi avevano segni fisionomici simili a stigmate degenerative e tratti psicologici comuni, Lombroso enunciò l’ultima sottocategoria del delinquente-nato: l’epilettico. Condividendo le teorie diffuse ai suoi tempi per cui gli epilettici, durante l’attacco convulsivo, potevano commettere ogni sorta di delitti e reati, propose la teoria dell’epilessia larvata che poteva dar luogo ad atti devianti anche in assenza di traumi fisici. Nella V e ultima edizione (1897) Lombroso concluse che la differenza tra la delinquenza-nata, la pazzia morale e l’epilessia era soprattutto di ordine quantitativo: “ Come il pazzo morale si fonde col delinquente congenito solo differendone in ciò che è un’esagerazione dei suoi caratteri, così il delinquente epilettico offre l’esagerazione della pazzia morale; e siccome due cose uguali ad una terza sono uguali tra di loro, così è certo che la delinquenza nata e la pazzia morale non sono che varianti dell’epilessia” Così, dopo lunghi anni di studio sulla criminalità e al termine della carriera, Lombroso poté dichiarare che l’epilessia era la sottostruttura universale di tutto il comportamento criminale includendo in essa sia la pazzia morale che l’atavismo. L’epilessia era diventata “la base della criminalità nata”. GENIO E FOLLIA. Nelle quattro edizioni (1864-1882) dell’opera Genio e Follia sostenne che il genio era la conseguenza di condizioni patologiche del corpo, una specie di degenerazione dovuta all’epilessia. La creatività, sosteneva Lombroso, era “una forma di psicosi degenerativa appartenente alla famiglia di una affezione epilettica”. Deliri, allucinazioni, depressioni, stati maniacali e libidine erano tutte caratteristiche di uomini il cui aspetto esteriore già denotava sia il genio che la degenerazione. Secondo Lombroso il genio e l’epilettico avevano molte cose in comune: la malattia ereditaria, l’inclinazione alla criminalità, la frequenza al suicidio, la religiosità, il vagabondaggio e la perdita del senso morale. La frequenza dell’epilessia nei grandi uomini della storia lo aiutò a definire la natura epilettoide del genio. Credette di trovare conferma teoria analizzando la vita e le gesta dei più famosi Geni dell’umanità che furono epilettici: Napoleone, Molière, Giulio Cesare, Petrarca, Pietro il Grande, Maometto, Haendel, Swift, Richelieu, Carlo V, Flaubert, Dostoevskij e San Paolo. LE INFLUENZE DELLE METEORE. Cesare Lombroso nella Relazione tra le età ed i punti lunari e gli accessi delle alterazioni mentali e delle epilessie s’interessò alle antiche credenze che mettevano in relazione i corpi celesti e la Luna in particolare col cervello umano. Era fermamente convinto che “le modificazioni singolari che subisce il cervello malato sotto le meteore confermano sempre più come l’alienazione sia una malattia del corpo, ed essere il pensiero soggetto come tutto il corpo alla esterne influenze“. Precisò che il nome lunatico, che fu dato ai pazzi ed agli epilettici, ebbe un preciso riferimento alla Luna come è evidenziato nei vari detti popolari: patir la luna, aver le lune, mal della luna che ancora oggi sono presenti nel nostro lessico. Rilevò che gli alienati e gli epilettici sarebbero più soggetti a crisi e avrebbero una minore capacità mentale durante la fase di luna calante mentre il plenilunio sarebbe il periodo più adatto per opere di grande capacità intellettuale. Concluse lo studio dichiarando che “l’azione lunare, benché ancora sia assai discutibile, pure comincia ad intravedersi, con un aumento degli accessi a luna calante specie nei dementi, epilettici e maniaci; ma questa azione se pure è sicura, si risolverebbe in una influenza delicatissima, coincidendo colla prevalenza dei tempi nuvolosi e burrascosi”. Nello studio delle influenze meteorologiche e stagionali sull’alienazione e sull’epilessia rilevò che nelle rapide variazioni barometriche le crisi epilettiche erano più frequenti. Ma anche l’influenza delle stagioni era importante perchè gli accessi dipendevano dal corso solare: scarsi nei primi freddi, più frequenti nei primaverili, ancor più nei mesi estivi, per ritornare ad essere scarsi in autunno. Lombroso suggeriva ai dementi incurabili e agli epilettici di soggiornare nella stagione calda in siti freschi e dove si risentono meno le variazioni della pressione atmosferica. Nella pratica queste osservazioni parvero utili per le cure profilattiche e terapeutiche dell’alienazione e dell’epilessia, e per servire di norma alla “fondazione dei manicomi il supremo fra i soccorsi psichiatrici”. IL BRIGANTE MUSOLINO Cesare Lombroso, al culmine della sua carriera, volle esaminare alla luce delle proprie teorie una delle ultime figure del brigantaggio calabrese: il leggendario Musolino. Il brigante Musolino fu molto popolare nelle campagne calabresi, quasi venerato dai ceti meno abbienti e tra coloro che vivevano in quelle remote vallate dove “la vendetta è considerata come un diritto e anzi un dovere” soprattutto se andava a colpire i ricchi e i potenti. Per anni riuscì a sfuggire alla cattura malgrado pendesse sul suo capo una grossa taglia, fossero stati mobilitati più di mille tra soldati e carabinieri e adottati espedienti vari come ricatti, agguati, interventi di “donne ammaliatrici” fino al ricorso di droghe (oppio). Il suo arresto fu opera di tradimento o meglio di un banale scambio con un altro malvivente. Intorno alla sue gesta nacquero leggende tanto da far dire a Lombroso che “l’Italia fu tutta inondata di romanzi, fiabe e canti in suo onore, e che eragli di schermo e protezione contro l’intiera polizia italiana, più che non avrebbe potuto una grande schiera di armati” . Nel 1902 sul periodico “Nuova Antologia” Lombroso pubblicò un articolo dove elencava i risultati delle sue analisi sul leggendario brigante. Come spesso accadeva Lombroso formulò la diagnosi senza vedere il paziente affidandosi alle fotografie ed alle osservazioni di altri insigni antropologi criminali. Criminale-nato. Lombroso spiegava che alla radice del comportamento di Musolino c’era l’epilessia. Infatti a partire dai 12 anni di età ebbe le prime crisi di epilessia motoria (epilessia del lobo temporale) e da allora divenne incorreggibile, crudele ed attaccabrighe. Dell’epilessia aveva “l’eccessiva impulsività e il carattere contraddittorio, ora eccessivamente agitato e verboso, ora muto e istupidito come un idiota, ora sospettoso, diffidente, ora fanciullescamente ingenuo, e l’intermittente bestiale ferocia sanguinaria alternante con una certa bonarietà”. Inoltre lo zio di Musolino e tre cugini materni erano criminali, nonno e zio materni erano apoplettici, la figlia della zia era epilettica, il nonno paterno alcolista, suo padre aveva le vertigini “che costituiscono la forma embrionale dell’epilessia”, due sorelle soffrirono in carcere di crisi epilettiche e la terza sorella era affetta da gravi problemi di origine nervosa. Lombroso, in prima istanza, concluse che Musolino era un criminale-nato per ereditarietà ma soprattutto perché era soggetto a crisi epilettiche “malattia che è, come ho dimostrato, la base della criminalità-nata” (ultima edizione dell’Uomo delinquente, 1893). Degenerazione fisico-psichica., Musolino presentava tracce di degenerazione fisica come il delinquente-nato: “fronte sfuggente, esagerazione delle arcate sopraccigliari e asimmetria facciale, fatto questo che diventa importante, perché si somma a quella del tronco e degli arti , così frequenti negli epilettici”. Ma ancora più gravi erano le anomalie psicologiche . Mostrava un “istinto di feritore e vendicatore” anche nei confronti del padre – solo nei confronti della madre e della zia mostrava un po’ di affetto – e la più completa incoscienza nel compiere i reati; la marcata megalomania lo spinse a chiedere al prefetto, prima di essere accompagnato in carcere, il permesso di uccidere due nemici; non mostrava segni di “rimorso” malgrado ventiquattro tentativi di omicidio di cui alcuni riusciti; uccise anche alcune donne perché si mostravano gentili coi suoi nemici; manifestò, in alcune occasioni, episodi di grande barbarie immergendo le mani nelle viscere sanguinanti dei nemici. Musolino era dominato da una fortissima “vanità morbosa”. Smanioso di “apparire” sulla stampa del tempo, si atteggiava a personaggio di grande importanza, pensava di farsi eleggere nel Parlamento italiano, voleva parlare direttamente col Re, salutava la folla che lo applaudiva con dignità regale; si paragonava al conte di Montecristo. Musolino però non faceva il male per il male, come era palese nei delinquenti-nati, ma per spirito di vendetta; amministrava la giustizia tra i suoi uomini con proporzionalità di pene e mostrava Intelligenza e Genialità. L’intelligenza straordinaria e la genialità permisero a Musolino di diventare in breve tempo il capo della criminalità organizzata locale, di sottrarsi per tanti anni alla cattura, la capacità di comporre poesie meglio di “altri poetastri d’Italia” e il rifiuto ad abbassarsi a piccoli crimini come il furto. Ma in questa intelligenza così acuta esisteva una falla: l’ossessione della vendetta. Dopo l’apparizione in carcere di San Giuseppe, con la promessa del suo santo aiuto, nacque in Musolino un vero delirio vendicativo verso tutti coloro che al processo avevano deposto contro. Si persuase che la condanna a vent’anni di carcere per tentato omicidio era stata sproporzionata ed ingiusta e che quindi doveva cancellarla nel sangue. Ambiente sociale e razza. Lombroso sosteneva però che la natura delinquenziale di Musolino era stata modellata anche da altri due fattori: l’ambiente sociale e la razza a cui apparteneva. In Calabria, sottolineava Lombroso, l’estrema povertà e l’analfabetismo della popolazione erano la causa prima degli alti tassi di criminalità e della simpatia per i fuorilegge; dal punto di vista razziale Musolino aveva i tratti tipici della regione natia: cranio allungato e mascella prominente caratteristiche che rientravano nelle fattezze normali “del tipo di questa regione” comunque inferiori al “tipo fisico nordico”. Inoltre il brigante uccideva con facilità perché l’omicidio, in quella regione, “non è considerato reato così grave come negli altri paesi” e la vendetta è creduta un dovere da assolvere a tutti i costi. Nonostante lo “stadio inferiore di senso morale” Lombroso attribuiva ai calabresi un’intelligenza vivacissima, come dimostrava lo stesso Musolino, dovuta alle origini razziali in cui era mescolato il sangue degli antichi romani, greci e fenici che erano “superiori” agli arabi, agli albanesi, agli africani e a quasi tutti gli altri popoli meridionali. Conclusione. Quest’ultima riserva e la scarsità di ulteriori caratteri criminali indussero Lombroso ad ammettere che forse il brigante Musolino non era “il completo tipo di criminale” ma si trovava a mezza strada tra il criminaloide ed il criminale-nato.

Fonti bibliografiche: Delitto, genio, follia di Cesare Lombroso- Scritti scelti a cura di D.Frigessi, F.Giacanelli, L. Mangoni – Bollati Boringhieri – 1995; Nati per il Crimine-Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica di Mary Gibson – Paravia Bruno Mondatori Editori – 2004.

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